La mia vicina è una vecchia signora con un cane, che piange puntuale ogni mattina con i galli, un figlio che non capisco cosa faccia nella vita e una bella palma, quella della foto qui sotto.
Stamattina quando esco, c’è un uomo con i piedi a due metri d’altezza a sinistra del mio finestrino, quello dei due che non si apre, sopra ad una catasta di foglie verdi e puntute.
Palma.
Tagliare una palma, dovete saperlo, è una cosa che lascia il segno. Io una palma l’ho avuta e l’ho tagliata. Le radici della palma scavano e vanno in profondità e quelle della mia, giù in Sardegna, ce l’avevano con il muro di cinta al punto che la scelta era tra lei e il ritrovarsi il giardino con annesso mura sulla strada, all’improvviso, prima o poi.
Quando tagli una palma, ti fai male. Fa male dentro perché ci sei affezionato…e mi succede con ogni albero della mia infanzia. Fa male fuori, perché quelle dannate foglie sono come gli artigli di un alien, un paio di punture e aspettati febbre e debolezza, braccia reticolate di sangue che neanche un emo. Si difende, morde…la palma…e anche quando credi di aver “vinto” non è detto che sia finita…una palma ha sempre un grandissimo spirito di sopravvivenza, può ricrescere ovunque, in punti impensabili, anfratti, buchi, fessure.
Ovunque.
Devi fare terra bruciata.
Devi darle il colpo di grazia.
Un animale pericoloso, la palma.
Quando arrivi alla fine del lavoro ed è sera…e il cassone rosso del camion è pieno di artigli verdi e corteccia pelosa, sei distrutto e triste. Ricordo ancora il vicino, che per ore e ore di lavoro, osserva sorseggiando the freddo su una sedia pieghevole per poi alzarsi e mi si avvicina…io stavo seduto sul muretto di fronte a casa mia.
“Ma sai che in costa le cercano le palme belle come la tua…te l’avrebbero pagata un sacco di soldi” mi dice
“Oh…grazie per avermelo detto con tale tempismo!” vorrei dirgli, ma sto zitto.
Coglione.
Ora, io con le piante so di essere sentimentale e tutto…ma a dirla tutta, alla palma della vicina non mi ci ero cosi affezionato…non più della mimosa già abbattuta anni fa nello stesso giardino e da cui rubavo i mazzetti per la festa della donna…ma questa foto, riflettevo, non è solo la foto di una cosa che non esiste più…ma è anche l’emblema delle cose che non vanno con me…le attese infinite, l’aspettare che sia il momento giusto…cose come il “sentirsi pronto” e preparato, con il mondo attorno che intanto cambia e manco te ne accorgi. Perché per mesi, ogni volta che ritornavo su questa foto, era un continuo ripetermi che ne avrei dovuta rifare un’altra…cambiare la composizione…usare luci diverse o flash…sfruttare il soggetto. Insomma, una di quella infinità di cose che mi dico che “farò da domani” e che poi non faccio.
Solo adesso però, mentre leggo la marca delle scarpe del tizio che calpesta i resti della palma, realizzo che non ci sarà più nessun’altra foto. Non potrò fotografarla di giorno…ne sperimentare per ore in una notte di nebbia invernale…e forse non potrò nemmeno più chiedere a quella ragazza di uscire…o dire ai miei genitori che gli voglio bene…o chiedere scusa a qualcuno senza aspettare che il tempo guarisca ogni cosa.
Tutti questi “dovrei” sono castelli immaginari fatti di carte.
Crollano.
E se forse è vero che “c’è sempre tempo” come dicono, è pure vero che anche le palme alla fine muoiono e poi non ricrescono più.